di Giacomo Brucciani

24 febbraio 2022, la Russia invade l’Ucraina, dopo giorni intensi di dichiarazioni, minacce e tentativi diplomatici di evitare la guerra. E la guerra torna in Europa dopo il dramma della ex Jugoslavia degli anni 90’ del secolo scorso.

Sempre il 24 febbraio, poche ore dopo l’inizio delle operazioni militari, Elena Kovalskaya, direttrice del Teatro statale e Centro Culturale Vsevolod Meyerhold di Mosca si dimette per protesta contro l’invasione dell’Ucraina.

Manifestazioni per la Pace in tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, da Sydney a New Delhi, così come a San Pietroburgo e Mosca. Donne e uomini insieme che lanciano il loro grido di dolore e di speranza contro l’ennesima guerra usata quale mezzo per risolvere problemi. La Kovalskaya si dimette, le persone scendono in piazza, e molte donne si preparano alla guerra, da soldatesse e da semplici volontarie. Vi ricordate le donne curde con il loro motto “combatteremo fino alla pace”? C’è chi sostiene che la guerra sia frutto di un pensiero maschile, di una modalità patriarcale di intendere la vita, e attribuisce alle donne il coraggio di guardare alla società in modo diverso, forse più conciliante, più legato all’integrazione. Senza scendere in considerazioni di carattere antropologico o quant’altro, forse, invece, è arrivato il momento di superare il dualismo donna-uomo, che ci costringe ancora in un’oscillazione tra due poli. Forse dobbiamo smettere di portare avanti un infantilismo psicologico del “tu sei cattivo” e “tu sei buona” e seriamente con coraggio metterci alla ricerca di un connettore comune che salvaguardi la pluralità senza cadere vittima del settarismo insito nella multi-diversità. Parlare di esseri umani e da esseri umani consente di vedere il gesto coraggioso di Elena Kovalskaya per ciò che è, il gesto di una persona che rifiuta di essere associata a una visione catastrofica e antiumana. Se mancano visioni convergenti, unitarie, l’unico valore che rimane è l’imposizione sugli altri e la conseguente moda di sventolare da una parte o dall’altra, secondo il momento. Un monito, che abbraccia la forza delle idee e la coerenza delle azioni, ci viene da Parmenide di Elea quando afferma che “è la stessa cosa pensare ed essere”. Hannah Arendt con il suo La banalità del male ci invita ancora oggi a riflettere su un punto fondamentale: una persona può fare del male senza essere malvagia? Ebbene, questo interrogativo è attuale, non perché non abbiamo una riposta, bensì perché è necessario che rimanga tale, un continuo interrogativo circa la nostra “momentanea” indifferenza quando azioni atroci vengono commesse lontano da casa nostra. E poi, smettiamo di considerare la storia come una lunga catena di cause ed effetti e concediamoci un altro punto di vista, che non è quello monumentale o archeologico, bensì quello critico, grazie al quale recuperiamo l’imponderabile, l’emergenza “inaspettata”, il dato del singolo e del gruppo. Essere pacifisti solo per guerre che non si verificano è facile. Margaret Mead e Ruth Benedict ci aiutano a considerare la guerra non una necessità biologica né una conseguenza dell’indole bellicosa dell’essere umano, bensì come un fattore culturale. Chiediamo a noi stessi se siamo entrati in una logica di guerra ancor prima che la guerra iniziasse davvero. E infine: che cosa siamo disposti a fare? in che modo impegnarsi attivamente per il cambiamento? Siamo disposti a credere a qualcosa solo perché l’abbiamo sentita dire?